Tiziana Villani
Ho voluto riflettere sul tema del margine e su alcune esperienze in alcuni territori che prendono in considerazione il concetto di margine, utile se pensato come elemento critico capace di bucare una rete di modelli economici estrattivi, di dominio che possono annientare le varie articolazioni del concetto stesso di margine. Il margine è qualcosa che si muove attraverso le pieghe di un sistema che non lascia spazio ad alternative possibili, ma che allo stesso tempo riesce a connettersi come una macro-politica o, altrimenti, risulta un concetto che ingabbia. Voglio ricordare la famosa scienziata femminista e attivista Vandana Shiva per toccare il tema del rapporto tra esseri umani e cibo. In una sua recente intervista, Shiva afferma che le persone vengono viste dalle multinazionali come parti da inserire e rielaborare all’interno di un sistema di potenziamento tecnico. Parto da questa riflessione perché tutti i discorsi che si sono avviati intorno al recupero dei saperi locali e delle comunità devono tenere conto anche delle condizioni tecniche in cui si spendono le nostre vite odierne. Per dirlo con le parole di Foucault, c’è uno sguardo modificato attraverso cui si guarda al mondo, alle alleanze tra le forme di vita e alle non alleanze, cioè ai conflitti. La tecnica svolge un ruolo fondamentale, se si pensa alle tante sperimentazioni che si fanno su territori magari abbandonati e che sono recuperati per il valore di vita altro che custodiscono, a cui non siamo abituati, ma che aiutano a chiarire il rapporto tra tecnica e specie.
Dopo due anni di pandemia, ad esempio, quando parliamo di alleanza tra forme di vita dobbiamo essere consapevoli che l’interdipendenza delle forme di vita, come ci dice Donna Haraway, proviene in primis dalla terra e quindi il nostro nutrimento è costellato da alcuni elementi che vanno colti nella loro specificità. Produciamo interdipendenze e alleanze con le quali possiamo sviluppare una buona coabitazione, abbiamo elementi con i quali possiamo sviluppare un approccio parassitario e di interscambio e infine ci sono delle forme di vita che sono per noi elementi distruttivi e minacciosi. La pandemia ci ha posto davanti a una minaccia, una minaccia di tipo animale e questo ci dovrebbe far riflettere. Quando si tratta di attivare delle nuove forme di rapporto con la terra e con il territorio, e anche di riappropriarsi di saperi perduti, non si possono però trascurare le mutazioni intervenute che ci impediscono di pensare in maniera compiuta a un habitat incontaminato e non ci permettono di considerare la natura altro da noi. Una natura che si è modificata, che abbiamo modificato noi e che ci sta dando dei segnali molto inquietanti, ci dice anche che più del ritorno di un sistema di vita soddisfacente è necessario tracciare nuovi modi di abitare il mondo. In questi giorni stiamo facendo i conti con la siccità, la forte mancanza di acqua, il bene dei beni oggetto di una espropriazione e privatizzazione di una risorsa essenziale non solo per l’Europa, ma per tutto il mondo. Tra le molte esperienze che seguo in Italia e in Francia negli ultimi anni, il Centro di Chiaravalle sta attivando ad esempio delle reti-filiera di produzione locale, con momenti di riflessione per produrre una critica del quotidiano.
Il modello attuale è dunque estrattivo e di dominio e non trova alternative nei movimenti di critica orizzontali o strettamente appiattiti sulle tematiche ambientali. Le esperienze di Donna Haraway, del femminismo di donne che percorrono altrimenti il dominanter modello non occidentale e bianco, mettono in luce la necessità di porre in circolo, nelle forme di controllo cui siamo abituati, una critica del quotidiano, è un movimento questo, in cui si pongono a verifica i paradigmi della comunicazione. Oggi l’ecologia ha un ruolo fondamentale nel dibattito politico pubblico, ma sta diventando un brand, un trend per parlare di transazioni improbabili e si sta imponendo senza una vera critica e consapevolezza. Dietro queste “buone pratiche verdi”, non si innerva una posizione radicale ecologica vera, “una riarticolazione dei bisogni”, una vera e propria messa a verifica del consumo, verso il quale siamo sempre sollecitati in una direzione mutuata dalla cultura americana, che si attesta su livelli di linguaggio epurato e si dissimula dietro una critica inautentica del modello economico. E’ necessario invece riappropriarsi dei modi di esistere e di margine, mettendoli all’interno di una messa a crisi della narrazione dominante.