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Amphibian Pedagogy: building climatic commons

Nomeda e Gediminas Urbonas

Swamp School, Community of Plants by Adele Dovidaviciute and Remigijus Daubaras. Photo Norbert Tukaj
Swamp School, Swamp Ponchos. Photo Norbert Tukaj
Swamp School, Hybrid Radio, Nicole L Huillier. Photo Gabriele Urbonaite
Swamp School, Swamp Radio with Jana Winderen. Photo Norbert Tukaj
Swamp School, Swamp Radio with Sam Auinger. Photo Norbert Tukaj
Swamp School, Venetian soap,Thuy Le Antonio Moya-Latorre, Shane Reiner-Roth, Indrani Saha. Photo Norbert Tukaj
Swamp School, Turfiction. Photo Norbert Tukaj
Swamp School, Turfiction. Photo Norbert Tukaj
Gediminas & Nomeda Urbonas, Futurity Island
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Siamo artisti ed educatori che lavorano insieme dal 1993 per sviluppare una pratica fondata sulla ricerca. Il nostro progetto è iniziato nella nostra città natale, Vilnius, in Lituania; si tratta di uno spazio transdisciplinare che favorisce la ricerca, l’autoformazione e l’auto organizzazione. 

Oggi vogliamo concentrarci su uno dei progetti che da tempo portiamo avanti e che nasce dal nostro interesse per gli ambienti di palude. È un progetto di civiltà e progresso, reso possibile prosciugando le paludi e dividendo ciò che è solido da ciò che è liquido. Questi territori sono stati a lungo massacrati dall’uomo per favorire l’agricoltura, modificando i corsi d’acqua e fondando nuovi insediamenti, molte volte espellendo le popolazioni indigene dalle loro zone. Si tratta di metodi e tecniche di progresso e colonizzazione. Come sostiene Andrew Pickering – sociologo, filosofo e storico della scienza britannico presso l’Università di Exeter – prendere consapevolezza della presenza delle paludi sotto i campi coltivati dall’uomo significa accettare un’antologia non dualista e più adatta all’era dell’Antropocene. Nel nostro progetto – sia nel libro che abbiamo realizzato, che nel lavoro che conduciamo ogni giorno – sosteniamo che l’arte e il design devono necessariamente abbracciare la palude e la sua complessità ibrida, la sua queerness e la sua essenza variabile, per iniziare un processo di decolonizzazione di sé stessi.

Inoltre, utilizziamo il termine “palude” in maniera volutamente imprecisa, perché ha in realtà molti significati diversi: palude, strato, recinto, scatola, e tanti altri. C’è una certa criticità in questa parola, che però possiamo vedere come uno strumento per favorire un cambiamento nella prospettiva dell’ontologia modernista. 

Dante Alighieri scrive che, sulla via per l’Inferno bisogna confrontarsi con le acque odorose dei fiumi e con una selva oscura, dove non è possibile trovare alcune gioia e fiducia in Dio, nell’uomo o nell’universo. C’è quindi un riferimento alla presenza di una palude; e il termine stesso, “palude” suggerisce un’immersione, una disconnessione dalla potenza travolgente delle acque che si chiudono sopra le nostre teste. Questo luogo oscuro, senza forma e senza fine come l’universo stesso, è un abisso verso cui tutti noi ci dirigiamo. La palude riflette la profondità della nostra immaginazione, che può essere illuminata da una scintilla spettrale.

La palude è forse uno dei luoghi più inquietanti della terra e della cosmologia dell’uomo moderno. Per questo è stata a lungo maltrattata dalla retorica politica odierna che invita alla mobilitazione contro anomalie e deviazioni, prosciugata in nome del progresso. “Drenare la palude” è stato il motto di Giuseppe Garibaldi e Benito Mussolini, personalità che hanno attivamente trasformato il paesaggio italiano in nome della purificazione delle zone di palude. Sbarazzarsi di ciò che è considerato strano era parte tanto del progetto fascista quanto della retorica moderna.

Durante l’età dell’Illuminismo, il pensiero cartesiano ha favorito la reificazione scientifica, filtrando e raffinando l’idea di una conoscenza al totale servizio della civiltà europea, separando e scartando tutto ciò che era altro, strano e oscuro. Quindi anche la paludi, a meno che non fossero in qualche modo utili all’uomo occidentale. La relazione tra la palude e gli insediamenti umani è molto complessa. Il progetto stesso di organizzazione in insediamenti da parte dell’uomo è legato alla presenza delle paludi. Drenare una palude è un’operazione di insediamento e una contingenza ciclica di estrazione ed espulsione. 

Über die vegetation und entstehung des hochmoors von Augstumal [Sulla vegetazione e la formazione delle torbiere alte di Augstumal] è un libro del 1902 del botanico tedesco Carl Albert Weber (1856-1931). Considerato come la “bibbia delle paludi”, è ancora oggi una delle principali fonti per la scienza riguardane la PD Box — un composto organico fertile, simile al carbone, nascosto sott’acqua che cresce molto lentamente – iniziata dopo Humboldt. Weber ha studiato l’interdipendenza tra piante e insetti, funghi, e suolo soprattutto nella zona di Brema presso l’osservatorio imperiale prussiano delle paludi. Fu inviato nella periferia orientale dell’Impero di Prussia, l’attuale Lituania, che venne destinata alla costruzione di basi scientifiche per l’estrazione e colonizzazione delle paludi. L’immersione totale nella natura selvaggia e incontaminata fu fondamentale per Weber, che ha registrato la bellezza del paesaggio attraverso uno studio meticoloso della lenta crescita delle piante, delle forme degli alberi, dei fenomeni ottici. 

Questa è l’eredità da cui siamo partiti. Il nostro primo progetto è stato in collaborazione con dei giovani architetti lituani, che ci hanno invitato a curare il padiglione della Lituania – che abbiamo poi rinominato “Padiglione della Palude” – alla Biennale d’architettura a Venezia nel 2018. Abbiamo chiesto a questi architetti di recarsi presso una palude che Carl Albert Weber descrive nel suo libro per sperimentarne l’instabilità. 

La nostra “sfida” è iniziata, quindi, con la collaborazione con il team di architetti per la realizzazione del Padiglione Lituania alla Biennal di Venezia del 2018, in cui abbiamo cercato di proporre un concetto di design e architettura che andasse oltre la sola visibilità per sviluppare altri sensi. Il padiglione era situato al centro della laguna di Venezia; in questo progetto abbiamo avuto la fortuna di collaborare anche con insegnanti e studenti della NABA, provenienti da diverse facoltà e specializzati in discipline come antropologia, sociologia, filosofia, architettura, design, e arti visive. 

Abbiamo sviluppato degli esercizi pedagogici che coinvolgono una conoscenza sensoriale immersiva, per poter immaginare futuri ambienti a supporto di forme future di apprendimento per favorire un cambiamento di prospettiva, attingendo dall’archeologia e ripensando al ruolo della scuola, che dovrebbe diventare un’infrastruttura aperta e in continua evoluzione, che favorisca esperienze collaborative tra arte e design. La parola “intelligenza” è molto importante per noi della “Scuola della Palude” – un altro nome del nostro padiglione – perché l’intelligenza è necessaria per imparare ma soprattutto per adattarsi alle situazioni impreviste e sconosciute. 

L’ontologia duale della palude è il fulcro della nostra indagine, che colloca la palude stessa al centro della linea di sperimentazione cibernetica. Abbiamo parlato, poco fa, dell’importanza della tecnologia. Quando guardiamo la palude, non guardiamo qualcosa di primitivo, ma l’oggetto di quella sperimentazione cibernetica iniziata da Gordon Pask negli anni Sessanta. Un filone di studi che si è concentrato in particolare sull’intersezione delle forme di vita e sulla modellazione dell’equilibrio delle paludi, che ha ispirato la gestione dei processi complessi nella nostra società contemporanea. Questi studiosi hanno cercato di guardare alle paludi come ambienti complessi per sviluppare computer biologici del futuro. Ipotizzando di poter adeguare il cervello umano a questi ambienti complessi, possiamo pensare di favorire la gestione e la riconfigurazione delle reti umane. 

Non importa quanto ci appaia indisciplinata la palude, possiamo trovare un sistema al suo interno. 

Il nostro progetto è stato diviso in tre “capitoli”, oppure “moduli”, ognuno supportato da manuali e saggi. Il primo si concentrava sulla palude come sistema biologico; il secondo sulla tecnologia; e il terzo su una pratica ibrida, amplificando modelli storici del passato. La pratica artistica e architettonica potrebbe ispirare il superamento dei confini tra discipline e offrire un’esperienza sensoriale e collettiva, in una sorta di communnismo, da non confondere con il comunismo. 

Tornando al progetto di Venezia del 2018, la nostra idea era quella di trattare l’intera laguna come se fosse un’aula scolastica, che si scontrava però con l’impossibilità di considerarla completamente come tale a causa dell’imprevedibilità delle condizioni climatiche. È stato un progetto segnato da una forte tensione, anche tra la nostra sede principale in via Garibaldi e la laguna-aula. Gli sponsor e il team di architetti a nostra disposizione sono stati di grandissimo aiuto perché hanno portato le loro visioni e i loro suggerimenti per lo spazio e la sua configurazione. Abbiamo prestato particolare attenzione alle architetture e agli spazi che si costruiscono attraverso la trasmissione e l’ascolto. Per questo è stato fondamentale coinvolgere diversi professionisti, tra cui artisti che lavorano con il suono e che prestano attenzione ai diversi modi di ascoltare l’ambiente, alla tecnologia necessaria per il supporto e l’ascolto delle voci dell’ambiente, solitamente fuori dalla frequenza dell’orecchio umano. Intuizioni che sono state supportate e rese concretizzabili grazie al supporto di teorici, che hanno collaborato nello sviluppo di questo progetto. La tecnologia è stata ovviamente una componente centrale. Se ci pensiamo, con gli smartphone stiamo gradualmente diventando più simili agli insetti perché in fondo utilizziamo delle “antenne” che amplificano ed estendono le nostre capacità corporee, come quella di muoverci nello spazio, cercare cibo, o cercare un posto sicuro. Stiamo involontariamente diventando degli insetti. 

La configurazione dello spazio di via Garibaldi, la sede della “Scuola della Palude”, è stata realizzata utilizzando dei tubi presi dalle fabbriche di estrazione. Il tubo è il simbolo dell’Antropocene. Abbiamo utilizzato tubi di scarico per costruire un nuovo ambiente, necessario per incanalare suoni e odoro. L’infrastruttura, in questo caso, viene riconfigurata e riappropriata. 

Abbiamo condotto un esperimento in collaborazione con un’università lituana, abbiamo ricostruito un piccolo frammento di una palude situata nell’area a nord di Venezia per capire se le specie che vi abitano possano sopravvivere. Questo esperimento ha dato vita a una discussione molto interessante tra gli ecosistemi molto umidi e quelli secchi, come palude e deserto.

A Venezia, per gli agricoltori locali la sfida più grande è aggiungere uno strato di terra ai terreni quando l’acqua si alza. Molta terra utilizzata a Venezia per questo scopo viene importata proprio dalla Lituania per sostenere l’agricoltura. 

All’interno di questo progetto a Venezia abbiamo proposto diversi “esercizi”, ad esempio abbiamo realizzato del sapone seguendo dei processi asiatici. Il sapone è uno dei principali prodotti simbolo dell’industria turistica. In questo caso specifico lo abbiamo realizzato utilizzando parte dei rifiuti degli altri padiglioni nazionali presenti alla Biennale. Alcuni studenti della NABA di Milano hanno lavorato su una delle isole composte dai rifiuti del Lido di Venezia, aprendo una sorta di archivio di questi manufatti di plastica, e che rappresentano la nuova geologia prodotta dall’attività umana.

Abbiamo anche avuto l’occasione di collaborare con degli studenti di Amburgo, che hanno lavorato in particolare con l’Assemblea Sociale per la Casa di Venezia. Qui abbiamo esaminato i materiali autoctoni provenienti dalla Laguna che vengono utilizzati per il restauro. Si tratta effettivamente di un’indagine sulla tecnica locale e sui materiali da costruzione. 

Un altro aspetto importante del nostro progetto riguarda l’attività pedagogica studiata appositamente per i bambini di Castello e per la popolazione locale. Via Garibaldi, come molti sapranno, si trova nel cuore della zona di Castello, un’area molto tipica di Venezia. Qui è sempre possibile vedere i bambini che giocano insieme. La Biennale occupa spesso gli spazi di gioco di questi bambini; quindi, si crea un attrito e una tensione. Abbiamo per questo deciso di aprire una sezione della nostra scuola ai bambini, in cui gli architetti hanno proposto delle aree di gioco e delle attività appositamente per loro. I bambini sono in qualche modo diventati gli architetti della loro casa anfibia. 

Seguendo il modello di Documenta, il nostro progetto ha portato a Venezia 120 partecipanti tra curatori e artisti. È stata un’esperienza di condivisione artistica, ma anche di comprensione di ciò che la palude può darci rispetto al momento storico in cui viviamo. La caratteristica più importante del communismo è la comprensione dell’architettura come spazio condiviso, e non l’architettura in termini di modernità e come confine che ci separa dagli altri. L’architettura deve essere intensa come comunanza. Abbiamo avuto un gruppo islandese che si occupava di narrativa turistica, che cerca di riabilitare il modello abitativo islandese, ovvero le costruzioni domestiche in legno e pietra scavata nel terreno con tetti ricoperti di terreno fresco e vivo. La discussione sulla terra fresca è arrivata e Venezia, e l’abbiamo persino mangiata proprio perché incredibilmente fresca. C’è stata una vivace discussione con degli scienziati francesi, che per tre anni hanno studiato i microbi e batteri che costituiscono il benessere di un dato suolo. Non si è trattato solamente di un semplice esercizio empirico, ma di una prova scientifica molto importante per noi, perché siamo scesi al livello microbico per capire cosa garantisce veramente e salvaguarda la salute di un ambiente. Lo spazio è davvero qualcosa di condiviso tra il corpo umano, il corpo animale e il corpo dei batteri. Per sostenere ulteriormente questa ricerca dal punto di vista antropologico e sociale, ci siamo avvalsi della collaborazione di professionisti dei settori provenienti dal Regno Unito. 

Quella di Venezia stata un’esperienza su cui ci sarebbe molto da dire, ma per ora vi abbiamo dato una panoramica della nostra attività, che ha coinvolto più di 200 partecipanti. Abbiamo organizzato molti eventi, di cui ora ne abbiamo nominati solo alcuni significativi. 

Un progetto su cui stiamo lavorando attualmente si chiama Swamp Observatory; quindi, risponde sempre al nostro interesse per le paludi e consiste nella realizzazione di un’applicazione e di progetti di realtà aumentata. Tutto è iniziato quando ci hanno invitato sull’isola di Gotland, un’isola svedese che si trova nel Mar Baltico ed è un’ex base militare; quindi, sono ancora presenti degli aeroporti militari. 

Negli ultimi vent’anni ci siamo interessati ai siti emarginati, abbandonati, esauriti. Abbiamo lavorato in Tasmania (Australia), ad esempio, sulle rive del fiume Derwent, che è noto ai più come il fiume più inquinato del mondo; e ancora in Togo, un altro sito ad alto tasso di inquinamento perché qui, sotto terra, sono state sepolte le armi chimiche utilizzate durante la seconda guerra mondiale. In questo è molto simile alla storia di Bari. Abbiamo quindi iniziato a indagare non solo ciò che era visibile e tangibile, ma anche ciò che non lo era, e a immaginare le azioni necessarie per la guarigione di questi luoghi. Sull’isola di Gotland, è stato l’ambiente stesso a suggerire delle risposte. Si tratta di una zona calcarea ad alta presenza di fossili, che ci parlano del tempo permettendo di viaggiare tanto in avanti quanto indietro. È sempre importante, per noi, incontrare tutti gli attori locali, le persone del luogo che hanno una conoscenza profonda e autentica della realtà autoctona. A Gotland abbiamo incontrato dei botanici, ad esempio. Come molti sapranno, la storia della Svezia è molto legata all’eredità lasciata da Linneo (1707-1778); molti botanici stanno portando avanti le sue ricerche e i suoi studi. È stato fondamentale mappare insieme a loro le specificità del sito, dove abbiamo riscontrato una presenza interessante di funghi e tracce di un’ex palude. Abbiamo dunque seguito la metodologia e conoscenza locale, e anche collaborato con una scuola locale e i suoi studenti tra i 12 e 14 anni, coinvolgendo gli insegnanti di musica, arte, biologia e inglese. Abbiamo chiesto ai ragazzi di ripercorrere e analizzare la storia dell’inquinamento dell’isola, su cui sono presenti fabbriche di cemento e di estrazione; ma anche di immaginare dei personaggi fantastici, i cui corpi sono stati trasformati dall’inquinamento. La coesistenza tra questi “mostri” e gli esseri umani dovrebbe diventare una collaborazione per porre fine all’inquinamento, favorendo possibilità di bonifica. Attraverso questo progetto dell’Osservatorio stiamo costruendo una biosfera in cui entra in gioco la realtà aumentata di cui parlavamo prima. Abbiamo tradotto in RA i disegni delle creature fantastiche realizzati dai ragazzi della scuola. 

Si tratta di un progetto nuovo, appena avviato e in fase di sviluppo. Ma il nostro obiettivo rimane creare uno scambio in cui i partecipanti vengano coinvolti in un apprendimento attivo e in una pianificazione attiva.

Traduzione dall’inglese di Michela Ceruti

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