MARCO SCOTINI
Curatore del Centro per l’Arte e la Biodiversità Ambientale di Donnapaola Arts Farm
Donnapaola Arts Farm si pone quasi come un’utopia. È un progetto che offre più di una possibilità:
da una parte si propone come un’istituzione, dall’altra più che un progetto artistico rappresenta una visione.
Il seminario ‘Ecologie del margine’ richiama nel titolo la realtà molto interessante che ci ospita: già qui siamo in un margine, un margine dell’Italia e al tempo stesso un margine più fisico, il rapporto tra il mare e le Murge. L’Italia offre nel suo percorso alcune esperienze artistiche significative: pensiamo agli importanti interventi di Joseph Beuys in Abruzzo, nella tenuta agricola di Lucrezia De Domizio e Bubi Durini. Ciò conferma che proprio dal “margine”, da questo sud italiano, possono nascere e svilupparsi episodi che hanno rilevanza internazionale.
Tuttavia il concetto di margine ha anche un’accezione diversa, che proveremo ad approfondire con i guests invitati per questa occasione. Guests che da anni coltivano un rapporto con una dimensione ecologica che intende fare i conti con un sistema espropriativo. Molti di noi hanno cominciato a lavorare su queste tematiche anche da più di 20 anni. Io stesso con il progetto ‘Dopopaesaggio’ in Toscana nel ’98; Lorenzo Romito di Stalker, che negli anni Novanta inaugurava un percorso di attenzione all’urbano totalmente carico di potenziali ecologisti; Wapke Freenza con Myillages… In generale, tutti i nostri relatori appartengono ad una modalità ‘resistenziale’ rispetto al trend ecologico corrente, ed esprimono il bisogno di mettere in campo ulteriori energie comprovate come verifica dei poteri e dell’esperienza.
Il focus di Ecologie del Margine è infatti la messa in discussione dei saperi e in particolare del nostro sapere occidentale. Se vogliamo fare i conti con un pensiero ecologista, con un’ecologia politica, è doveroso sottolineare questo. Altrimenti apparteniamo a quell’ennesimo trend estrattivo di immaginari e di economia esemplificato dalla green economy. Estensione della macchina capitalista che da un lato si nutre di immaginari naif, dall’altro continua la propria perversione attraverso il discorso “catastrofista”. Di fronte a questa realtà non c’è arte che tenga, è possibile solo un’arte “politica”. Questa è una strada che non passa, o passa solo tangenzialmente, nel sistema dell’arte. Credo che il compito principale dell’arte oggi sia cercare la costruzione di nuovi immaginari, perché ne abbiamo davvero bisogno. Da qualche anno sempre più stiamo facendo esperienza diretta della crisi climatica e ambientale. Se vogliamo intervenire attraverso l’arte, dobbiamo lavorare su altri dispositivi, appunto sui saperi.
La dimensione del margine ha a che fare dunque con un’ipotesi ecologista di natura diversa. Esplicativa può esserne un’opera dell’artista slovena Marjetica Potrč, “Rural house”, che ho portato alla Biennale di Yinchuan nel 2018 e che mette in evidenza un assetto rurale tipicamente cinese e un assetto nomadico tipicamente mongolo, o delle praterie o del deserto dello Xinian. La casetta era un caso che avevamo trovato nelle campagne cinesi, e con adattamenti, abbiamo ricostruito per la Biennale. La casa è fatta con mattoni di sabbia del deserto e foglie di riso essiccate: quando la popolazione decide di lasciare l’insediamento la casa torna sabbia, torna deserto e non lascia tracce. Questa piccola unità abitativa ci sembrava interessante come forma ibridata tra un insediamento rurale e il sistema nomadico con cui si incrociava.
Questo è uno degli esempi, di come poter uscire da un’idea di ruralità che si è fondata sulla geometria, sulla proprietà e poi su un’idea di stato o su quella che Felix Guattari chiama ‘scienza di stato’ (che noi identifichiamo come scienza tout-court) e l’idea nomade di abitare totalmente differente…A partire da questo environment del bordo cinese ho capito che dobbiamo abbandonare qualsiasi idea di natura, perché adesso la posta in gioco di un’ecologia declinata al plurale (Guattari parla di “tre ecologie”, ambientale, psichica e sociale) è il pensiero di una mutua interdipendenza reciproca delle cose che possa diventare un nuovo fondamento da cui ripartire.
Le due giornate del seminario sono state divise in due parti, una dedicata al ‘rurale’ e l’altra all’abbandono”, che devono essere mantenute in un’osmosi costante. In questa chiave ripensare la terra significa anche ripensare la dimensione del lavoro, come ha sottolineato la scrittrice Maria Rosa Dalla Costa. Bisogna ricordare che la modernità scopre ad un certo punto la non remunerazione del lavoro femminile. Il passo successivo è stato per noi scoprire la non remunerazione della terra, che continuiamo a far lavorare senza avere nessuna idea del valore del lavoro che la terra compie, così come del lavoro produttivo e riproduttivo che la donna compie all’interno di dinamiche capitaliste. Non possiamo pertanto pensare un rapporto con natura se non pensando anche ad un rapporto con il genere, con l’economia, con il socius o con la mitologia e con tutti i saperi che la cultura occidentale ha rimosso. È necessario che i saperi comincino a vedere l’ecologia come un paradigma e non solo come una questione ambientale. Forse ciò richiederà troppo tempo, forse siamo troppo in ritardo su tutto. Ma come dico sempre: “Sono nato razionalista e morirò ecologista”.