A proposito di Free Home University. Ecologia del sapere, arte e comunità di apprendimento.
Alessandra Pomarico
Il processo di apprendimento è qualcosa che puoi incitare, letteralmente, incitare come una rivolta. E poi, eventualmente, si spera che continui a casa, o vada avanti. (Audre Lorde)
Nessuno educa qualcun altro, nessuno si educa da solo, le persone si educano insieme attraverso l’intermediazione del mondo. (Paulo Freire)
Aprire spazi per sperimentare insieme una diversa maniera di vivere, lavorare alla costruzione di comunità (di pratiche, di lotta, di cura) ospitali e porose, sostenere gli ecosistemi del vivente e ripensare la produzione di conoscenza (ma anche la produzione tout court) – sono queste le riflessioni che animano la Free Home University. un progetto artistico-pedagogico che si concentra sulla condivisione dei saperi attraverso un approccio conviviale e orizzontale, e un fare artistico immerso nella vita quotidiana e a margine del sistema dell’arte.
La questione di come e cosa sia necessario imparare nasce dall’urgenza di disimparare i paradigmi correnti, sempre piu’ distruttivi, estrattivi, competitivi- e quelle forme di necro-politica, come le chiama Achille Bembe, che generano la crisi mortifera, multipla e continua, del nostro tempo.
In Free Home University, la convivenza nella stessa casa e il coltivare uno spirito collegiale sono alla base del nostro approccio pedagogico, la cui metodologia si vuole sperimentale ed emerge dalla condivisione di momenti di vita, studio, ricerca e azione in comune, senza separazione o gerarchie di ambiti e ruoli. Si tratta di un esercizio alla collettività, alla co-responsabilità, alla com-partecipazione, al riconoscimento della nostra condizione d’interdipendenza e interconnessione anche oltre l’umano, con le altre specie e ogni forma di vita. In questo processo, che è contemporaneamente un disimparare e un re-imparare, l’arte (e i processi e pratiche che alimenta) si fa lente per indagare la realtà e possibilmente cambiarla, strumento per mobilitare e potenziare l’energia collettiva, smuovere pensieri, domande, affetti.
Riusciremo a sopravvivere all’Antropocene, a superare il modello patriarcale- razzista-capitalista e coloniale, basato su sfruttamento, e forme di oppressione intersezionali al fine del profitto di pochi, e a recuperare un rapporto di armonia tra esseri umani e con l’universo?
La pedagogia – quando orizzontale, situata, radicale e autonoma, è il piano da cui abbiamo sentito l’esigenza di partire per generare pratiche e processi di trasformazione sociale, per mettere in questione il pensiero occidentale moderno, con la sua pretesa universalistica, i suoi binarismi natura-cultura, uomo-donna, individuo–società, umano–non umano, per riparare il senso di separazione che ne deriva. Per costituire comunità mature, un’ecologia della cura e dei saperi, attraverso un’epistemologia che sappia abbracciare ontologie, cosmovisioni e cosmopolitiche altre.
Un altro modo di imparare è possibile! Per preparare un futuro ecologicamente e socialmente giusto, dobbiamo rivedere criticamente l’assetto su cui si basano la nostra conoscenza, i nostri discorsi, le nostre abitudini e narrazioni. Avere il coraggio di decolonizzare le istituzioni e di creare nostre para/infra-istituzioni che sappiano attivare forme di cura, muto aiuto, alimentari reti trans-territoriali e trans-locali, inserendo le nostre pratiche in un ecosistema più ampio, nel metabolismo allargato del vivente, che include inevitabilmente fasi di deterioramento e compostaggio, necessarie alla trasformazione e alla rinascita. Se ormai è assodato che perfino il nostro corpo, a livello cellulare, partecipa di meccanismi atmosferici, molecolari, granulari collegati col corpo del pianeta, con i suoi vari elementi e relazioni, bisognerebbe anche accettare che le nostre strutture di pensiero e di organizzazione sociale si facciano pregne e portatrici di relazioni d’interdipendenza.
In Free Home University lo abitare insieme, le diverse prospettive, e pratiche e metodologie condivise, hanno spesso portato a forme di prefigurazione di comunità possibili, in divenire, che si ritrovano attorno al desiderio di diventare quello che ancora non siamo, ma che possiamo esercitarci a essere. Per fare degli esempi concreti, vorrei condividere l’importanza di alcune collaborazioni costruite in questi anni di lavoro nel e con il territorio, in particolare, quella con un gruppo di soggetti migranti e alcuni operatori dell’accoglienza, e quella stabilitasi con Casa delle AgriCulture, associazione di contadini attivisti di Castiglione d’Otranto che pratica l’agricoltura naturale, si mobilita contro lo sfruttamento del suolo e del lavoro, protegge la biodiversità, attivando forme di economia, cultura, socialità autorganizzate e dal basso. È soprattutto nella progettazione e creazione condivisa con questi gruppi, nelle relazioni che ne sono scaturite, che ho potuto fare esperienza della potenza trasformativa ed emancipatrice dell’arte quando posta al servizio della comunità, sottratta al sistema e al mercato, o alle trappole dell’ego e del personalismo autoriale. Attraverso la co-creazione, la condivisione e la co responsabilità’ nella trasmissione del sapere, una pedagogia critica ma anche basata sugli affetti e rigenerativa, radicale e conviviale -come suggerisce Ilich- il nostro diventare comunità allargata e matura, è un processo fondato sul continuo interrogarsi e sull’auto riflessione, anche rispetto alle nostre azioni e intenzioni. Una pedagogia dell’incontro, in cui il primo esercizio è quello dell’ascolto.
Per esemplificare il discorso delle pratiche e metodologie, potrei portare come esempio il film Gente di Farina, Acqua e Sale, realizzato dal collettivo russo Chto Delat durante una sessione delle Free home University con un gruppo di attivisti, richiedenti asilo e artisti riuniti nel 2019 a Castiglione. Secondo lavoro della trilogia filmica Zapatista, parte dell’orientamento lento nello Zapatismo, come il gruppo definisce questa ricerca, la proposta iniziale era di leggere le favole del Subcomandante Marcos, per discutere di giustizia e analizzare la congiuntura geopolitica nel nostro momento storico, da territori e prospettive differenti. Trasposte nelle diverse lingue e contesti dei partecipanti provenienti da Congo, Gambia, Italia, Inghilterra, Nigeria, Russia, parte Kurda dell’Iraq, le fiabe sono state arricchite dai racconti di un attivista italiano che aveva partecipato alle “carovane” in sostegno degli Zapatisti in Messico. Grazie alla metodologia consolidata di Chto Delat che include pratiche somatiche, esercizi teatrali e ludici, proposizioni musicali e visive, inspirati dall’esempio e dalle strategie degli Zapatisti, il gruppo ha a sua volta condiviso le proprie storie, lasciando trapelare diversità e privilegi, ma anche affinità, desideri e un sentire comune. Cosi’ un giorno, mentre imparavamo a fare la pasta fresca con le farine prodotte da casa delle Agriculture, dopo la vista al loro mulino di comunità, sono apparsi tra le dita i personaggi del film, le ‘genti di farina acqua e sale’ che avrebbero animato la nostra terra immaginaria, una terra comune, con i suoi fiumi, montagne, semi e foreste. La drammaturgia del film è emersa dall’improvvisazione e da esercizi guidati, e la narrazione si è andata sviluppando su un triplo livello: i momenti di convivenza quotidiana e il processo collettivo e creativo durante la residenza; i personaggi inventati che popolano e lottano per una terra sognata, e infine le storie di vita e le testimonianze dei partecipanti, con piccoli poetici inserti di auto-etnografie. Prima di arrivare al montaggio finale di questo learning film, Chto Delat ha poi voluto consultare i partecipanti e la comunità locale, prendendo in considerazione le loro reazioni prima, ribaltando l’usuale passività del pubblico destinato a ricevere il film nella sua versione definitiva.
Un esempio diverso potrebbe essere la sessione guidata da Babi Badalov, artista- rifugiato dell’Azerbaigian in asilo politico a Parigi, che ha voluto approfondire sulle questioni migratorie, la costruzione dei confini e dell’alterità. La sua esperienza personale ha riecheggiato in quella dei partecipanti, aprendo una riflessione intima e politica su come determinati corpi (neri, non etero-normati, diversamente abili, altri) siano sacrificabili in un sistema che consente mobilità illimitata alle merci ma non agli esseri umani. L’evocazione dei molteplici traumi e difficoltà che incontrano le persone durante la migrazione, rifiutando scivolamenti nel vittimismo, ha rilevato la figura del migrante come soggetto in resistenza, che attraverso il proprio movimento e la propria presenza provoca trasformazione nei territori in cui arriva. Babi Badalov- poeta visivo il cui linguaggio si contorce per includere significati e riferimenti plurali, decentrando il logos e operando uno spiazzamento del senso comune- ha proposto di realizzare un murale collettivo- Refugees Welcome Refugees Will Come (i Rifugiati sono i Benvenuti. I Rifugiati Arriveranno, in italiano si perde il gioco di parole e di sonorità che l’inglese permette)- e una mostra collettiva Bread no Borders (Pane no Frontiere) in cui sono confluiti disegni, striscioni, bandiere, slogan dipinti su vecchie lenzuola e t-shirt usate. In contemporanea, Free Home University lanciava la campagna di magliette d’artista a sostegno dei rifugiati in difficoltà, per raccogliere fondi e attivare forme di micro economia e socialità attraverso la partecipazione a mercatini solidali.
Altri esempi potrebbero essere le sessioni sempre con la comunità allargata nata intorno a Casa delle Agriculture, con Fernando Garcia Dory e il suo collettivo In Land sulla pastorizia, l’agro ecologia e l’inserimento degli animali nell’agricoltura naturale; o le diverse sessioni con il collettivo di designers e architetti Construct Lab per la creazione di strutture temporanee costruite con materiali upcycled e scarti agricoli e per creare cucine comuni, eco-toilet, il mercato delle produzioni biologiche, e per un orto urbano; la metodologia di attivazione di comunità di saperi differenti Future Farmer; le sessioni con Silvia Federici e poi con Francoise Verges hanno messo in connessione attiviste, ricercatrici e artiste sulle questioni della riproduzione sociale, della violenza dei generi, ponendo l’accento sulla necessità di un femminismo decoloniale e anticapitalista. Il collettivo Ultra red invece aveva attivato attraverso passeggiate sonore, momenti di ascolto e di studio del vogueing (danza praticate nelle comunità nate attorno ai Ball Room negli USA) soggettività LGBTQI+ gruppi di persone con esperienza migratoria. Questi ultimi poi sono stati centrali in tante sessioni guidate da membri del Bread and Puppet, de La Pocha Nostra e Schwabbinggraad Ballet in cui, anche per via della mancanza di una lingua comune, i linguaggi utilizzati erano basati sul movimento, dal teatro delle ombre al teatro degli oppressi, al teatro danza, alla musica e costruzione di marionette, che hanno portato a restituzioni pubbliche in forma di cabaret, spettacoli di danza, processioni e dimostrazioni performative per strada. Oltre naturalmente alla produzione di discorsività e immaginario politico intorno ai commons, attraverso l’esperienza del collettivo 16 Beaver, la riflessione estetica de Lu Cafausu, le istanze portate dai partecipanti Indigeni e Neri su razzializzazione, decolonialita’ e privilegio, e la centralità dei pasti e dei momenti celebrativi e delle storie condivise attraverso la loro preparazione collettiva.
In questi quasi dieci anni di co-ricerca, auto-formazione e creazione collettiva, potrei citare innumerevoli esempi, da quelli più intimi a quelli di scala più allargata, di come un’arte consapevole e socialmente implicata, possa innescare micro processi di rigenerazione sociale, ecologica, e diremmo anche epistemologica. L’aspetto forse più importante del lavoro della Free Home Univeristy risiede, infatti, nei legami di profonda amicizia e solidarietà che queste occasioni hanno generato e propagato. Una pedagogia che insiste negli insegnamenti che aiutano a trasgredire (con bell hook), incitando alla cura, alla riparazione, alla difesa dei corpi come dei territori, dell’umano e dell’oltre l’umano, contro un dilagante processo di de-umanizzazione e di frammentazione delle relazioni col vivente.