Luigi Coppola
Aprile 2021
Salento, Italia
Contagio, epidemia, zona infetta, sono parole che in questi luoghi fanno parte del vocabolario già da molto tempo. Più di 10 anni fa gli ulivi hanno cominciato a mostrare segni di disseccamento. Il Co.di.ro, complesso da disseccamento rapido, originato dal batterio chiamato xylella fastidiosa, da una piccola zona dell’ultimo lembo d’Italia ha iniziato a espandersi fino a coinvolgere milioni di alberi di ulivo e 150.000 ettari di terreno e pare al momento inarrestabile.
Il paesaggio qui era modellato da una monocoltura di ulivi senza tregua. Ora di questi ne rimangono solo i fantasmi, a ricordare la violenta dominazione dell’uomo. Per tanti anni si è rimasti attoniti a osservare l’epidemia che avanzava fino al proprio campo. Gli alberi di ulivo riuscivano a coprire gli innumerevoli scempi compiuti sul territorio: il consumo di suolo, le zone industriali fantasma, le tonnellate di diserbanti, la noncuranza e l’abbandono. Ora tutto è visibile, insostenibile alla vista. Per molti la risposta è stato dare fuoco, per altri tagliare, estirpare. Il più delle volte gli ulivi hanno ancora le radici vive, non sono produttivi, ma continuano a produrre nuovo materiale vegetale.
Oltre alla catastrofe economica, paesaggistica e culturale non si fa che acuire la catastrofe ambientale. Il lavoro di accumulo di materia vitale compiuto dagli alberi per centinaia di anni, viene liberato in pochissimo tempo in atmosfera, aggravando un bilancio ecologico già pesante. Ciò che rimane è solo terra arida.
Tornando a vivere in questi luoghi durante la pandemia ho deciso di ingaggiare un corpo a corpo con il mio uliveto. Non una lotta, contro il nemico invisibile che stava facendo deperire i rigogliosi olivi del mio giardino, piuttosto una cura vicendevole, un’alleanza per provare a trasformarsi insieme.
Il disseccamento avviene perché c’è un’occlusione delle vie linfatiche della pianta. Togliere le parti secche, non è una questione estetica, ma contribuisce a focalizzare gli sforzi della piante sulla parte ancora viva e rallenta il diffondersi della malattia.
Circa tre anni fa ho dovuto fare una prima potatura, purtroppo abbastanza radicale, per togliere le parti secche degli ulivi. Una piccola parte dei residui secchi li ho usati come legna per riscaldarmi d’inverno, ma la grande parte di materia organica l’ho triturata e rimessa nel terreno. Ripristinare la fertilità del suolo dovrebbe essere d’altronde il punto di partenza di ogni azione agroecologica. Questa azione ha cambiato radicalmente la struttura del terreno che oggi è incredibilmente ricco e fertile. Il disseccamento purtroppo non si è fermato e ho dovuto quindi procedere ad un seconda azione di rimozione del secco. Questa volta ho iniziato a trattare il materiale organico, il tanto detestato materiale secco, come fosse un archivio di patterns, di forme e strutture, che si prestano, attraverso un complesso lavoro di ricircolo in tutte le fasi dell’agroforestazione. Ho provato di utilizzare questi materiali per costruire una grande scultura vivente per una relazione da stabilire tra umano e vegetale.
Ho creato delle strutture di contemplazione del secco, con le sue infinite sfumature date dai muschi e licheni che crescono sulla superficie del legno. Ispirato dalle strutture costruite con il materiale vegetale secco dei Masaai del Kenya ho creato delle barriere vegetali che riparano dai venti e creano dei nidi organici per la crescita dei nuovi fragili alberelli che ho piantato. Allo stesso tempo queste barriere vegetali sono ideali per la coltivazione di vegetali rampicanti che sperimenterò presto.
Una parte dei contorti rami che ho dovuto tagliare li sto reintegrando sull’albero a supporto delle fragili chiome rimaste e un’altra parte li uso come supporti per gli alberi che pianto. Provo ad imitare la natura ricostruendo in superficie delle specie di scheletri /radici che danno sostegno ai piccoli alberi. Queste strutture sostengono i piccoli alberelli di fichi, gelsi, pistacchio, diversi tipi di quercie, melograni e i nuovi alberi di ulivo di varietà che hanno più resistenza al batterio. La policoltura e la diversità sono fondamentali, d’altronde ogni monocoltura è destinata all’estinzione.
Costruisco poi delle colline vegetali, scavando dei solchi e interrando prima il legno più grande fino ad arrivare ai rami più sottili, ottenendo così delle riserve di materiale organico disponibile per i prossimi decenni.
Albert Camus dice che la bellezza non fa le rivoluzioni, ma viene il giorno in cui le rivoluzioni hanno bisogno di bellezza.