Attraversare il margine, ascoltare la ruralità
Leandro Pisano
Se è vero che il termine ‘margine’ ha una stretta relazione di senso con il concetto di ‘confine’, si può affermare che lo studio del margine, all’interno del contesto epistemologico più ampio dei Border Studies – o in contiguità rispetto a esso – ha prodotto negli ultimi anni una serie copiosa di contributi che, a partire dalla cornice degli studi post-/decoloniali e di genere ha determinato un quadro teorico nuovo e unico all’interno del quale analizzare uno dei fenomeni sociali più rilevanti del nostro tempo. A parlare di una vera e propria Center/Margin Theory era stata già Bell Hooks definendo in senso geometrico, per differenza e separazione, la relazione di marginalità nell’ambito di un gruppo o una comunità. Il margine, così come il confine, non può essere considerato stricto sensu né dal punto di vista ontologico come un oggetto né in senso metaforico come una pura linea. Ogni approccio semplificatorio e oggettificante del concetto stesso di margine tende a celare il fatto che esso rappresenta un assemblaggio di elementi materiali e immateriali che producono un insieme di fenomeni sociali complessi. Nella sua strutturale complessità ed eccentricità – rispetto ad una visione cartesiana e oggettificante -, il margine si configura come ‘spazio’ altro in senso eterotopico-foucaultiano, trascendendo ogni sintassi, mettendo in discussione discorsi e parole, palesandosi sulla soglia in maniera inquietante.
In questo breve intervento, mi concentrerò soprattutto sull’esperienza di una serie di luoghi ai margini, quelli della ruralità intesa come spazio ‘altro’ in senso eterotopico, mediata dalla ricerca in practice durata quasi vent’anni in diversi territori del Sud Italia, dall’Irpinia al Sannio beneventano, da alcune aree della Puglia al Molise, dal Cilento alla Sicilia. Aree rurali, luoghi abbandonati, zone ai margini attraversate tramite modalità di ascolto e pratiche artistiche che ne connotano l’alterità sia dal punto di vista sensoriale che delle risonanze del pensiero.
È la ricerca sviluppata suprattutto nell’ambito dei due progetti Interferenze new arts festival e Liminaria che ho curato tra il 2003 e oggi, approdata nel 2018 al Manifesto del Futurismo Rurale, documento redatto nella forma finale insieme a Beatrice Ferrara, ma risultato di un processo collettivo di riflessione che ha coinvolto artisti, curatori, critici, studiosi e comunità rurali dei territori di riferimento dei due progetti. Questo testo rivendica per i territori marginali e rurali, considerati nei discorsi del modernismo e del capitalismo contemporaneo aree invisibili o destinate a scomparire, la possibilità di trasformarsi in spazi e luoghi di azione e immaginazione di futuri possibili. È una prospettiva in cui i molteplici punti di vista e di ascolto forniti dall’arte, e in particolare dalle tecnoculture, mettono in discussione i termini manichei sui quali si costruiscono i discorsi attuali sulla ruralità, ovvero autenticità e utopia, anacronismo e provincialismo, tradizione e senso di stabilità, appartenenza ed estraniamento, sviluppo e arretratezza.
La ruralità stessa emerge all’interno dei dibattiti politici ed ecologici contemporanei, come elemento in costante oscillazione fra ‘alterità’ e ‘identità’: non un semplice spazio geografico, quindi, ma una sorta di ‘posizione’ di tipo politico, in cui è possibile sviluppare la pratica dell’immaginazione di futuri altri per le comunità, i territori e i luoghi, al di là della stringente dicotomia ‘alterità/identità’ e di una serie di discorsi che tendono a considerare la ruralità stessa come una componente marginale del mondo contemporaneo.
Dalle produzioni agricole e dalle filiere del cibo fino ai processi di trasformazione della materia, dell’energia e dei modi di produzione, il mondo rurale diventa così parte attiva delle dinamiche economiche, sociali, culturali che avvengono su scala globale, mettendo in discussione l’ordine tassonomico di una città vocata a dirigere lo sviluppo e di un mondo rurale marginale, residuale rispetto a questo esercizio di potere. Gli spazi rurali riempiono il vuoto dei modelli urbani e dell’idea di “progresso”, attraverso una messa in questione della storia, della politica, della cultura intesi come prodotti di una proiezione cosmopolitana. Questa visione evita qualsiasi rappresentazione nostalgica di una realtà persa per sempre o che si cerca disperatamente di salvaguardare, mirando invece a ricollocare la categoria del rurale nel milieu della modernità, come una sua componente rimossa o subalterna. È l’apertura di uno spiraglio per ripensare la modernità alla luce della ruralità, riconsiderando il ruolo centrale delle aree rurali rispetto al pensiero dominante della cultura metro/cosmopolitana.
Riletto in questa luce, il margine diventa il luogo della messa in questione dei discorsi della modernità nella relazione tra tra città e luoghi rurali, ma anche tra centro e periferie, tra Nord e Sud globale. Esso si ridefinisce all’interno di una sorta di dialettica di spazi costruita per differenza e sottrazione rispetto a queste tensioni e diventa uno spazio ‘altro’ in senso epistemologico.
Penso a quanto scritto da Rachele Borghi e riferito da Anna Rizzo, che riporta questa citazione a supporto dell’urgenza di un processo di “smontaggio” del paesaggio e delle comunità dei territori rurali:
“Nel suo celebre testo del 1989, Bell Hook affrontava da una prospettiva originale il tema della marginalità. La sua lettura del margine come spazio di resistenza e luogo radicale di possibilità offriva una visione impoterante della marginalità, vista come uno spazio di creazione e non di sottomissione. Questa inversione del punto di vista permetteva di pensare il margine come uno spazio da abitare, in cui trovare il proprio posto, dove stare e non solo come uno spazio di transito nell’attesa di raggiungere il centro. Si tratta di un cambiamento epistemologico cruciale: i margini diventano spazi di creazione, di condivisione, di elaborazione, di epistemologia collettive”.
Il margine è dunque lo spazio in cui è possibile ricombinare processi, risorse ed elementi che esistono già nel territorio, per poter introdurre la possibilità del cambiamento dei paradigmi e affermare la ruralità come componente attiva determinante nei processi economici, politici, culturali su scala globale. Lavorando sul margine, il territorio rurale diventa un laboratorio culturale in cui riassemblare pratiche ed elementi culturali che sono già esistenti. Non più luogo nostalgico, esso emerge, attraverso le pratiche dell’arte sonora e dell’ascolto “profondo”, come uno spazio critico in cui mettere in questione il significato di termini come “comunità” o “identità” e individuare nuove modalità di traduzione anche rispetto alle tradizioni.
“L’incontro tra artisti e comunità, attraverso processi temporanei e imprevedibili di traduzione, lascia riaffiorare frammenti di un passato che si apre alle voci e alle risonanze del presente, alimentando un processo nel quale, a partire dalla rielaborazione dell’attuale, si può re-immaginare il territorio come un “paesaggio diverso”, al di fuori dei luoghi comuni di una ruralità ereditata e posta ai margini dai discorsi della modernità.”
Il margine può essere riletto anche come spazio ontologico, di coesistenza fra elementi diversi: in un territorio, in qualsiasi territorio, tutte le forme di vita presenti, umane e non umane, sono sempre già implicate l’una nell’altra, inseparabilmente coesistenti. A volte, esse convivono pacificamente, altre volte lo fanno in maniera conflittuale. Quando questa coesistenza si realizza in maniera conflittuale, attraversando il margine si possono individuare le zone “grigie” di un territorio, decostruendo la retorica e i concetti ereditati di ‘ambiente’, ‘natura’, ‘ecologia’.
Riletto come ambiente di ‘coesistenza’ conflittuale, il territorio rurale stesso può essere ridefinito attraverso una presa di posizione che trascende ogni clichè puramente contemplativo o romantico-decadente, riproponendosi invece come catalizzatore di punti d’ascolto profondo, sui quali costruire ed immaginare ulteriori approdi linguistici, di pensiero, di senso.
il margine è dunque uno spazio aperto, sul quale e a partire dal quale ripensare ai concetti di luogo, ruralità ed ecologia attraverso le risonanze e le dissonanze del paesaggio, inteso come contesto complesso di forze ed assemblaggi di elementi materiali ed invisibili.
Ma il margine è anche uno spazio topologico, è una barriera fisica e geografica che prende forma nelle auto-narrazioni dell’isolamento da parte delle comunità che lo vivono: penso al territorio della Valfortore, posto sul crinale tra Tirreno e Adriatico, al confine esatto tra tre regioni: Campania, Molise e Puglia, nel quale abbiamo lavorato negli ultimi anni con Liminaria. È uno spazio che esprime una consapevolezza da parte delle comunità rispetto a un processo di marginalizzazione che si esprime attraverso processi materiali su più livelli.
La strada statale 212 dovrebbe collegare il capoluogo di provincia, Benevento, con l’ultimo paese della Valfortore prima della provincia di Foggia, San Bartolomeo in Galdo. Attualmente, la strada raggiunge solo San Marco dei Cavoti, che è solo il punto di ingresso al comprensorio fortorino. I paesi che insistono oltre questa prima barriera, pongono da tempo ormai la questione politica di una strada non ancora arrivata. Le vie di comunicazione per raggiungerli sono dissestate e la circolazione interna è poco agevole anche per la complessa orografia del territorio. Attraversando questa barriera, si sconfina in un territorio in continua mutazione a causa dell’impianto massivo di parchi eolici, in una delle aree più ventose del continente, che può essere avvertita in modo più violento acusticamente che visivamente. Percorrendola in cammino, si avverte con forza la saturazione dello spazio acustico. Il ripetersi del suono che fende l’aria costantemente diventa un fenomeno acustico talvolta insostenibile anche a livello psicologico. Che tipo di impatto hanno dal punto di vista biologico questi suoni costanti, ma pure gli infrasuoni che gli impianti producono, sulle specie che abitano questi spazi? Attraverso l’ascolto, avvertiamo la portata rovinosa delle trasformazioni territoriali, che incidono sulla qualità della vita e sulla sostenibilità biologica all’interno degli ecosistemi. In questa prospettiva, in cui il suono si libera da ogni causalismo e da ogni sua oggettificazione esterna al soggetto, esso stesso diventa pensiero, modo di pensare e concepire il mondo attraverso l’immersione che si ha in esso tramite l’udito.
Percorrere il margine prelude all’atto di ascoltare, in senso politico, amplificando i livelli di risonanza e dissonanza del territorio rurale, introducendo la possibilità di accedere a una dimensione profonda del ‘sentire’ in cui i luoghi diventano spazi di azione e riflessione.
È una modalità di attraversarli, di sentirli, di rioccuparli, di sondarne ciò che in essi è invisibile, portandone in evidenza i processi materiali e la negoziazione dei significati intorno alla produzione del sapere, in uno spazio-tempo in cui il passato risuona e ritorna costantemente, lasciando riaffiorare storie e narrazioni riposte che altrimenti non potrebbero mai emergere.